Rhapsody in Blue. Quando la musica sfugge alle categorie dei critici musicali.

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George Gershwin
George Gershwin, sullo sfondo l’edizione a stampa della Rhapsody in Blue

Un recente post sulla critica musicale che ho letto su un blog molto interessante mi ha fatto tornare in mente un avvenimento fra i più importanti e controversi della storia musicale americana. Sto parlando del capolavoro di George Gershwin, Rhapsody in blue (opera di cui ho già scritto in un post precedente), e di come fu ricevuto dalla critica del tempo, una storia che ci riporta ai primi del Novecento.

Andiamo allora a rievocare il clima dell’epoca, i roaring twenties, una delle ere più affascinanti della storia della musica.

New York, 1924. Siamo nel bel mezzo del decennio ruggente, l’epoca del jazz e dell’edonismo sfrenato. La musica afroamericana si è ormai diffusa nei locali notturni, nelle sale d’incisioni, e sta influenzando la stessa Broadway che, nei musical di Irving Berlin, Jerome Kern e George Gershwin, non esita a prendere a prestito dal jazz stilemi e strumentazione.

Nel mondo musicale di questi anni si vive in fremente attesa, si registra chiaramente l’aspettativa per qualcosa che sia veramente un prodotto peculiare della nazione. I critici invocano da più parti la Nuova Musica Americana, quella musica che potrà rappresentare il paese a livello internazionale, andando a competere con l’Europa. Ricordiamoci che siamo a inizio Novecento e che gli Stati Uniti, per molti versi, sono ancora alla ricerca della loro identità culturale.

Per molti di questi critici l’attesa di una nuova musica americana è così grande che non possono fare a meno di immaginarsela, cioè, in cuor loro, hanno già deciso le caratteristiche che la musica del loro paese dovrà o non dovrà possedere. Ed è qui che inizia a prodursi quella che sarà una svista clamorosa, il preconcetto che impedirà a molti di riconoscere il talento di Gershwin, osteggiato per gran parte della carriera dai critici più intransigenti e meno aperti alla novità.

Rhapsody in Blue, versione per un solo pianoforte
George Gershwin, Rhapsody in Blue. Edizione per un solo pianoforte del 1927

La nuova musica americana, secondo gli “esperti musicali”, si sarebbe dovuta affermare come diretta discendente della tradizione classica, magari dialogando con il modernismo musicale europeo, e tralasciando quella musica di consumo chiassosa e senza dignità che i contemporanei chiamavano “Jazz”.

Una musica buona per l’intrattenimento, niente di più. Ecco come la descriveva il compositore americano Arthur Walter Kramer:

“Perché non lasciare il jazz all’ambito cui appartiene? Lì ha dato a milioni di persone il piacere più grande che esse conoscano. Ne sentiranno la mancanza se esso se ne va in cerca di un’altra dimora. Mentre l’arte della musica non ne sentirà affatto la mancanza se il jazz la smette di invadere inutilmente un territorio che è al di là dei suoi limiti oltre che totalmente estraneo alla sua natura”.

Eppure il nuovo impulso per un repertorio musicale che si potesse dire autenticamente americano non lo diedero i conservatori come Kramer e chi disprezzava il jazz come musica di seconda mano.

Jazz Age. Gli anni '20
La Jazz Age, l’era della Rhapsody In Blue. Fonte: http://faculty.pittstate.edu

A dare questa nuova spinta fu proprio George Gershwin, che nel 1924 propose qualcosa di inaudito: la Rhapsody in blue, una composizione in cui la tradizione classica si sposava non solo con il jazz, ma anche con il blues e perfino con la canzone di Tin Pan Alley. Insomma una commistione di generi (musica colta e musica di consumo) e culture (bianca e nera) che spiazzò quei critici che avevano immaginato fin troppo bene come sarebbe dovuto essere il futuro della musica americana. La Rhapsody in Blue fu dunque stroncata da molti critici in quanto non si confaceva alle loro aspettative. A questi esperti musicali avrebbe sicuramente giovato leggere cosa scriveva Randall Thompson:

“Stiamo cercando ansiosamente una musica americana che sia genuina, portatrice di uno stile veramente indigeno. Sarebbe davvero strano se improvvisamente apparisse e, per il fatto che non coincide con le nostre idee preconcette, non la riconoscessimo”.

Un’osservazione come questa è ancora attuale. Noi oggi siamo davvero in grado di riconoscere il valore in quello che di nuovo la musica ci propone? Oppure siamo anche noi ancorati alla nostra immagine di come debba essere il futuro musicale che ci attende? Abbiamo davvero gli occhi aperti alla novità o il nostro sguardo è limitato dalle nostre immagini? Quanto la nostra capacità di valorizzare il presente è libera dalle categorie che noi stessi gli imponiamo?

Rhapsody in Blue, incisione del 1927, Paul Whiteman Orchestra (direzione di Nathaniel Shilkret) con George Gershwin al pianoforte (Victor 35822).

Se il sound degli anni ’20 non fa per voi potete sempre dedicarvi a una versione più moderna della Rhapsody in Blue, come l’integrale eseguita dalla Boston Pops Orchestra diretta da Arthur Fiedler con Earl Wild al pianoforte. Potete ascoltarla in un mio precedente post, cioè qui.

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lorenzo puliti

2 comments

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  • Ripeto il commento che ho già lasciato sul mio blog.
    Bellissimo questo post su “Rhapsody in Blue”, che dimostra quello che sostengo da sempre: in musica tutte le novità vengono viste dai contemporanei come insulti alla “vera musica”, salvo poi diventare “vera musica” per la generazione successiva, che a sua volta etc.
    Sono piuttosto sicuro che a cercare si troverebbero giudizi del tutto simili per Mozart e Beethoven… 😉

Da lorenzo puliti